Decreto dignità, i primi effetti dannosi della nuova legge. L’articolo di Daniel Zanda su Il Sussidiario.net

DECRETO
DIGNITÀ/ I primi effetti dannosi della nuova legge

Trascorsa
l’estate, cominciano a vedersi i primi e concreti effetti del Decreto
dignità sul mercato del lavoro.

DECRETO
DIGNITÀ/ I primi effetti dannosi della nuova legge

Trascorsa
l’estate, cominciano a vedersi i primi e concreti effetti del Decreto
dignità sul mercato del lavoro. Sono tutt’altro che positivi, come
spiega DANIEL ZANDA.

Passati
i mesi caldi di luglio e agosto, che hanno visto rispettivamente la
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto 12 luglio 2018 n.87 e
la sua conversione con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018 n.96,
possiamo iniziare a fare le prime valutazioni sugli impatti che il
Decreto dignità avrà sull’occupazione e il lavoro. Non ritengo
necessario in questa sede esprimere un commento meramente tecnico del
contenuto del decreto, in quanto le norme non sono belle o brutte in
sè: ciò che conta è la corrispondenza tra le finalità perseguite
e gli interventi giuridici proposti. Preferisco quindi offrire una
prima lettura sugli effetti che queste nuove disposizioni stanno
producendo nel mercato del lavoro.

Nella prima parte del decreto vengono principalmente apportate delle
modificazioni restrittive all’utilizzo del contratto a tempo
determinato e alla somministrazione di lavoro. Queste restrizioni
consistono principalmente nel ridurre la durata dei contratti
temporanei (massimo 24 mesi) e limitare le possibilità stesse di
utilizzo reintroducendo le causali – ovvero l’obbligo di dichiarare
le motivazioni eccezionali, non programmabili, temporanee e in alcuni
casi estranee all’attività dell’azienda – per ricorrere al tempo
determinato dopo il primo rinnovo e comunque dopo i 12 mesi di
contratto. Inoltre, il contratto a tempo determinato e in
somministrazione costerà lo 0,5% in più per ogni rinnovo.

I promotori della norma giustificano questo intervento con la
necessità di contenere la precarietà nel mercato del lavoro,
contrastando fenomeni di abuso della temporaneità occupazionale.
L’equazione sarebbe quindi la seguente: limitando il ricorso ai
contratti a tempo determinato aumenterà, come conseguenza,
l’assunzione a tempo indeterminato. Purtroppo la realtà ci sta
dicendo altro. Prendendo per vere tutte le considerazioni e i buoni
propositi del Governo, risulta difficile capire perchè si è
intervenuti limitando le due tipologie contrattuali temporanee più
tutelanti per i lavoratori. Condividendo il principio del “dobbiamo
contrastare gli abusi della flessibilità contrattuale”, non è
comprensibile il perchè si sia voluto iniziare con delle forti
limitazioni a due forme contrattuali che comunque prevedono il
versamento pieno dei contributi Inps (assistenziali e previdenziali);
applicano i contratti collettivi nazionali per regolare la parte
normativa ed economica del rapporto di lavoro; sono caratterizzati
dalla presenza, come nel settore della somministrazione, di un
sistema di welfare bilaterale che eroga prestazioni sociali
integrative, politiche passive e attive per il lavoratore.
Indubbiamente non andava tutto bene, infatti anche attraverso il
negoziato del rinnovo contrattuale del settore della somministrazione
stavamo procedendo a porre correttivi, in particolare sull’abuso dei
rapporti di lavoro brevi e reiterati, al fine di favorire maggiore
continuità lavorativa.

La vera precarietà si annida nell’utilizzo selvaggio dei tirocini
extracurriculari, nelle attività svolte dalle cooperative spurie, da
tutto l’universo di finte partite Iva (lavoratori sulla carta
autonomi ma in realtà dipendenti senza tutele), nel mondo del
parasubordinato non regolato dalla contrattazione. Queste sono le
situazioni sulle quali era necessario intervenire per contrastare i
fenomeni più precarizzanti, nei quali però è rimasto tutto
inalterato, anzi, senza alcuna logica si è incoerentemente deciso di
riaprire all’utilizzo dei voucher.

Venendo ai primi effetti di questo decreto, se le aziende vengono
limitate nella possibilità di proseguire con l’assunzione a termine
di un tal lavoratore, esse non intraprendono percorsi di
stabilizzazione, ma procedono con la sua sostituzione. Sono infatti
tantissimi i casi in cui, soprattutto per figure medio basse, quindi
facilmente intercambiabili, si è attivato un turnover esasperato.
Pare quindi evidente che disincentivare economicamente e
normativamente uno specifico comportamento (non fare contratti
temporanei per tempi lunghi) è molto semplice, ma non è cos è
agevole ricondurre a comportamenti virtuosi, soprattutto se non si
possiede un’idea culturale di lavoro, anzi, se non si possiede del
tutto la cultura del lavoro.

Da
più parti mi viene posta questa domanda: è più degno un contratto
di 36 mesi (il limite precedente), o un contratto di 24 mesi o
addirittura 12 mesi (per non dover apporre la causale al contratto)?
Lungi da me voler misurare la dignità di un lavoro dalla durata del
suo rapporto contrattuale, ma oggi la questione centrale è come
traduciamo occasioni di lavoro in opportunità, se quindi è
possibile costruire percorsi occupazionali, professionali, partendo
da un rapporto di lavoro anche temporaneo. Occorre quindi lavorare
sull’occupabilità delle persone, sulle proprie competenze, sullo
sviluppo di cognitive e soft skills,
favorendo l’accesso a politiche attive realmente performanti.

Siamo nella situazione in cui nel mercato servirebbe maggiore
continuità lavorativa, proprio per arricchire i percorsi di lavoro e
rendere le persone più forti nelle transizioni tra un lavoro e
l’altro, invece il decreto sta inducendo i datori di lavoro a ruotare
come su una giostra il personale, invece di stabilizzarlo.

Come parti sociali crediamo di avere comunque la responsabilità di
mettere in atto scelte coraggiose, anche controcorrente, ma che
tengano conto del delicato equilibrio tra tutele dei lavoratori e
libertà imprenditoriale delle aziende. A tal proposito come
organizzazione sindacale cercheremo di rilanciare contrattualmente la
somministrazione a tempo indeterminato, in quanto è esclusa
dall’applicazione delle limitazioni scellerate del decreto e può
essere sicuramente un punto di sintesi tra le necessità di sicurezza
del lavoratore e l’esigenza di flessibilità delle aziende. Questo è
solo un esempio di come i soggetti di rappresentanza del lavoro
possono esprimere nuovamente un protagonismo per riaffermare la
dignità (vera) del lavoro.

Siamo invece entrati in una fase dove la dignità è associata al
possesso del concetto di “cittadinanza”: sei una persona
degna solo se sei cittadino italiano, la dignità delle persone è
salvaguardata se hanno il reddito di cittadinanza e i pensionati per
essere giustamente gratificati devono avere la pensione di
cittadinanza. Occorre oggi rimettere al centro il lavoro, come prima
forma di cittadinanza, come primo fattore di socialità e relazione,
oltre che di solidarietà, per la costruzione della singola
soggettività e della comunità.